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giovedì 19 settembre 2013

Le mie impressioni sulla Biennale di Venezia condivise all'incontro di "Davanti a un fiume in piena #3"

Sono stato invitato, alcune settimane fà, da FanniDada all'incontro "Davanti a un fiume in piena", ecco la sintesi dell'incontro:


Vorrei condividere la mia gita alla Biennale, non come artista ma come fruitore dell'evento artistico, dando delle indicazioni sull’evento di quest'anno che ho appena visitato.

Arsenale, Palazzo Enciclopedico, foto D. Olivero



La Biennale è una cosa mastodontica, per il panorama italiano, partendo da una considerazione puramente economica, l'edizione di quest'anno ha avuto un badget di 1.800.000 eu, anche se confrontandola con Documenta dell'anno scorso, che ne ha avuti 23.000.000 di eu,è molto più piccola.


Arsenale, Paweł Althamer, foto D. Olivero

Dico questo perché voglio subito cercare delle ragioni sull'allestimento e la scelta dell’evento.

Posso dire che è una Biennale molto bella, che mette in risalto certi percorsi anche se sotto nasconde delle strategie, che appunto mi lasciano un po' perplesso.


Capisco che con quel budget costruire una Biennale di grande prestigio internazionale non sia facile. Ma facendo una scelta “originale” si è potuto realizzare un evento enfatico dove si nota un ottimo lavoro di allestimento e di curatela, forse un poco meno pregnante per le opere proposte. 



Mi sono posto una domanda, perché fra tutti gli artisti che ci sono nel mondo, si va a scegliere dei "marginali" che con l'arte non c'entrano nulla?



Lo si capisce forse pensando che alla Biennale comunque, come ha dichiarato Gioni, si vuole presentare un qualcosa che non si sia ancora visto. Peccato che se approfondiamo di più scopriamo che questi personaggi proposti, a parte una ventina che conosciamo tutti, i soliti Cuoghi, Dean, Condo …, molti degli altri artisti “secondari” sono comunque già presenti in collezioni private americane e altri già strutturati ed archiviati in gallerie, visti poi ad ArtBasel. 

Arsenale, Roberto Cuoghi, foto D. Olivero


La Biennale in sé è comunque un bellissimo evento per la possibilità di avere dei confronti, fra i tanti, il parallelo che propongo v’è quello tra la collezione della Fondazione Prada con la mostra "Future Generation Art Prize", due eventi collaterali.

La mitica mostra “When attitudes became form” viene riproposta, pari pari, dalla Fondazione Prada, si tratta di una mostra del '69, che ha messo in discussione un po' tutto il sistema dell'arte, peccato che poi tutti i personaggi che hanno partecipato alla mostra, in una chiave molto rivoluzionari, siano diventati dei personaggi essi stessi oggi molto omologati e “borghesi”.



La mostra " Future Generation Art Prize " proposta dalla Victor Pinchuk Foundation (vi consiglio di visitarla per prima) è un esempio della finzione dell’arte. Le opere esposte sembrano le copie di quelle alla Fondazione Prada, troppo simili per stile, questo ci dovrebbe fare riflettere, perché questi giovani sono promossi, da alcuni dei curatori più importanti, come le “nuove generazioni” dell'arte. Un giovane che pare già troppo vecchio.


La mostra della Collezione Prada con quella di Future Art Prize sono praticamente una riflessione sull'estetica, in un divario di quarantenni, pare non esser successo nulla, esse sono monotonia alla stato puro, spesso anche “brutta”. Importante notare come entrambe le mostre sono fatte in questi palazzi talmente belli, perché Venezia è bellezza allo stato enfatico, e questo, in certi casi, influisce tantissimo sulla percezione dei lavori proposti.



Altro stimolo: perché ci presentano ad una mostra di arti visive contemporanea delle figure che si muovono in modo compulsivo, che io non ritengo delle opere d'arte, ma in realtà sono dei bisogni intimi personali che non sono iscrivibili all’idea di arte.

Nel complesso sono state presentati degli oggetti di persone che hanno delle patologie, delle complessità, psichiche, ma non solo, che producono non per un bisogno di riflessione/condivisione ma per un bisogno di produzione/scarica (emotiva)...



In questa Biennale sono state presentate delle “opere” di artisti con delle "disabilità", e mi chiedo quante di queste persone producono un oggetto consapevoli di fare un oggetto visivo, realizzato per essere esposto pubblicamente, o solo per il "bisogno" di fare un oggetto.


Questi oggetti nascono da una necessità diversa da quella con cui si realizza un’opera di arte visiva.


Per realizzare un’opera, un’artista fa un certo percorso, ha bisogno di trasformare un suo pensiero in manufatto e poi decido di renderlo pubblico, quindi è una strada molto diversa rispetto a chi sente il bisogno di fare sempre una cosa e la ripete, senza ponderarne il suo senso “pubblico”. Qui nella Biennale si vede molto questo tipologia di “lavoro”.



Criticità di questa Biennale. Esteticamente è molto bella, l'allestimento è molto pulito, soprattutto nell'Arsenale, molto belle le didascalie, aleggia un complesso atteggiamento educativo/mitigatore all'arte. L'arte però non è solo educazione, è un gesto emotivo, una emozione introiettata in una riflessione, che diventa oggetto fisico, reale e presente nella cultura del suo tempo, che non dovrebbe necessitare di una spiegazione e di un ordinamento che ne spenga l’intensità.



Esempio storico la mostra di Manet, a Palazzo Ducale, dove i lavori, non hanno bisogno di apparati, di testi per comprendere. Guardando l’opera si ha già tutto, è un’opera di arti visive. Poi se uno vorrà sapere di più potrà farlo, ma essa vive autonomamente.

Quest'anno il Leone d'oro come migliore artista è stato assegnato a Tino Sehgal, fortemente legato ad alcuni della giuria che l’ha votato, che secondo me fa del teatro e non dell'arte visiva, che può anche starci per dei suoi percorsi, ma che è un po' “fuori gioco”.

Personalmente della Biennale, le mostre che mi sono piaciute di più sono quelle del Padiglione Irlanda, della Santa Sede, del Kuwait, i padiglioni laterali perché c'era una correttezza di qualità, ovvero qualità nel tema, nell'esposizione, nel manufatto, che in altre mostre non ho trovato.

Arsenale, Santa Sede, foto D. Olivero

Punta della Dogana la si può risparmiare perché le mostre che ci sono lì sicuramente le possiamo rivedere altrove, quindi non merita approfondire, a vantaggio invece di Palazzo Grassi con Rudolf Stingel, artista di Merano, con un allestimento totalmente enfatico che è un'esperienza da vivere nella sua globalità, forse un poco meno nei singoli quadri.


Un altro confronto il padiglione del Kuwait e quello dell'Angola (vincitore del leone d’oro) sono molto interessanti. Vorrei capire perché hanno dato il premio all'Angola, invece che al Kuwait, un paese islamico, in cui si parla di immagine, immagine della figurazione, che in realtà non è vietata dalla cultura islamica però è limitata per un brano del Corano dove dice che se tu crei un'immagine tu ne sei proprietario ed Allah ti chiederà perché hai fatto quell'immagine e ne sei responsabile se essa produrrà dei danni; per cui la cultura islamica evita la produzione di immagini, in particolare della figura umana, quindi sarebbe stato più apprezzabile dare il Leone d'Oro al Kuwait con un artista che ha scelto di fare tutto un discorso su un'immagine, piuttosto che l'Angola che porta un lavoro già iniziato l'anno scorso per la biennale dell'architettura, ripetendo una ricerca un po' pedestre, enfatizzando degli oggetti-scultura, seguendo un gusto imposto da un certo “mercato dell’arte” che guarda più al facilità del “vuoto” che alla complessità della ricerca. 

Queste sono tutte considerazioni che vi butto lì, come stimolo di riflessione.

Foto D. Olivero

Per concludere volevo solo ricordare che la Biennale è nata come un evento promozionale per la città di Venezia, per far muovere la città economicamente, nasce come una manifestazione per creare flusso di turismo nella città. Una Biennale delle arti visive che doveva parlare di contemporaneità, del presente.



Rimprovero a Gioni, un ottimo professionista del sistema dell'arte, di aver giocato la carta del “marginale”, forse dovuta al badget, costi di produzione/spostamento/assicurazione più ridotti.

Foto D. Olivero

Ha fatto la "furbata" di raccogliere dei manufatti originali, li presenta come fossero una novità. Ma l'art brut è un percorso che c'è già stato, storicizzato, analizzata, torno quindi alla domanda iniziale, perché con tanti contemporanei bravi artisti, abbia dovuto proporre figure “artistiche” marginali, di cui molti già morti, se la biennale è un evento contemporaneo, non si doveva tentare di dare spazio alle novità, alla freschezza? 

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